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"Tutto nacque in un hotel a Milano"
Ottavio Bianchi ricorda la fantastica annata che portò alla conquista del primo scudetto.

09 Maggio 2007 -- Il Napoli dei trionfi nacque nei lunedì della primavera ’85. «Con Allodi, il consigliere di Ferlaino, mi vedevo in un albergo di Milano. Avevo chiesto il permesso al Como, la mia società, per incontrare il dirigente del Napoli», ricorda Ottavio Bianchi. «Allenavo una provinciale, Allodi mi offriva la panchina di una squadra che nonostante Maradona e Bagni rischiava la B. Ero restio».

Perché tentennava davanti al Napoli di Maradona? «Avevo giocato qui per cinque anni. Conoscevo l’ambiente e Ferlaino, non ero molto convinto. Descrissi ad Allodi cosa accadeva ai miei tempi: il Napoli riusciva a battere per una volta una grande e si faceva festa sfrenata. Bisognava cambiare per vincere non più soltanto una partita».

Racconti. «Fissammo le regole. Squadra da isolare completamente, massimo rigore, rispetto dei ruoli, poche chiacchiere e moltissimo lavoro, un solo responsabile tecnico e niente interferenze. È servito questo per vincere e avviare un ciclo che altri club non sono riusciti a ripetere. Tanti si sono dichiarati padri di quello scudetto, io dico che Allodi fu bravissimo a scegliere gli uomini giusti».

Ritrovò Ferlaino dopo i litigi che c’erano stati quando era calciatore. «Ci siamo sempre rispettati. Nell’85 Ferlaino aveva voglia di riscatto. Creò la struttura con Allodi e Marino, giovane dirigente che fece bene la sua parte».

Alla fine accettò il Napoli. «Allora era un terno al lotto. Pensai: qui o si vince o si va via dopo una settimana. Nell’85 partimmo per raggiungere la zona Uefa e arrivammo terzi. Questa la base per lo scudetto». La stagione dei trionfi cominciò male: eliminazione al primo turno di Coppa Uefa. «Passò il Tolosa, 4-3 ai rigori e l’ultimo lo sbagliò il miglior giocatore al mondo. Ai primi di ottobre già dissero che il Napoli avrebbe cambiato allenatore. Avevo spostato la famiglia da Bergamo a Napoli, affittando una casa grande e iscrivendo i ragazzi a scuola: li rimandai indietro perché temevo che perdessero l'anno». Temeva l’esonero, cioè. «Vincemmo con questa enorme tensione addosso. A Napoli c’è autolesionismo, come sarebbe più chiaramente emerso dopo le vittorie».

C’era un rigido piano di lavoro e c’era Maradona, il genio più sregolato.«Tanto per rendermi la vita difficile, prima che arrivassi, dissero che non sopportavo gli argentini. Non era vero. Ne parlai con Diego e Cyterszpiler, il suo manager: ci ridemmo su».

I problemi con Maradona sarebbero cominciati dopo il primo scudetto. «È stato splendido e non lo dico per quanto ha fatto in campo, i suoi gol e le sue giocate. Diego era puntuale e, quando era infortunato, bisognava frenarlo perché voleva giocare. Maradona, da solo, è stato perfetto. Il problema sono stati quelli che lo hanno circondato».

Il Napoli ha vinto dopo sessant’anni perché c’era Maradona? «Quello dell’87 è stato lo scudetto di Caffarelli, Celestini, Filardi, Muro, Volpecina: ragazzi dal cuore grande, ingiustamente dimenticati». Tre sole sconfitte in trenta partite. «Ma io sapevo che le insidie erano dietro l’angolo. Temevo il calo di tensione e infatti una domenica a Verona rischiammo grosso. Non potevamo permetterci di avere a distanza molto ravvicinata le grandi: non c’era stata Calciopoli e non avevamo santi in paradiso, se vi fosse stata la volata con una big il Napoli avrebbe perso. Ai giocatori, prima delle partite con le squadre blasonate, dicevamo: fate fallo a dieci metri dall’area di rigore».

Il 10 maggio 1987 vissuto vent’anni dopo. «Quanto tempo ci mettemmo da Soccavo al San Paolo: un muro di folla lungo il percorso, il pullman procedeva a passo d’uomo. Cercavo di sfuggire all’abbraccio della folla, ero concentrato sulla Fiorentina. Finita la partita tornai in albergo. Mi fecero festa, erano tutti miei amici all’Excelsior, dal direttore ai camerieri. Cenai da solo. Poi arrivarono Ferlaino e la moglie, andammo in giro per la città con un gruppo di stranieri, c’era anche Messeguè: niente sapevano di calcio, quella notte erano incantati. Il giorno dopo ero già al campo a preparare le finali di Coppa Italia».

A cosa o a chi pensò Bianchi quel giorno? «A un vecchietto che avevo conosciuto a Napoli quand’ero calciatore. Avevo subito tre gravi infortuni e lui, per consolarmi, mi regalava animali domestici. Vedrai, mi diceva, questi annulleranno le energie negative. Non subii più infortuni. Quando andai via, quest’amico mi abbracciò commosso: un giorno tornerai e vincerai lo scudetto. Penso a lui anche vent’anni dopo».

A cura di Francesco De Luca
Fonte: ilMattino